COSE DI MILITELLO
appunti di viaggio di Brigida Fagone addì Sabato 22 Marzo, A.D. 2003
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Ho
alcuni ricordi di Militello che si tingono di grigio e che cercano di imporre la
loro patina sbiadita anche a quelli che, al contrario, erano pervasi di luce e
di colore. Penso, per esempio, al grigio di quella mattinata autunnale, in
cui accompagnammo mia nonna Francesca al cimitero. Era
una giornata di novembre del 1984. Non fredda, ma umida e, come dicevo, grigia,
molto grigia. Ero partita all'alba, con mio padre e mio fratello, per poter
giungere a Militello in tempo per i funerali. Mentre entravamo in paese, cadeva
una pioggia così leggera, da sembrare sospesa a mezz'aria. Il
colore grigio dell'atmosfera, naturalmente, era anche un prolungamento del
mio stato d'animo. Camminavo in mezzo alle facciate dei palazzi barocchi, con
addosso lo sguardo ostile dei mascheroni dal sorriso grottesco che ornavano le
mensole dei balconi e che un tempo mi erano stati familiari.
Mia
madre si trovava già a Militello da parecchie settimane e, appena
mia nonna si era aggravata, aveva chiamato anche le sue sorelle, l'una da
Torino e l'altra da New York, e tutt'e tre insieme avevano assistito a
quella lenta agonia, riunite per l'ultima volta attorno al capezzale di
una madre che non si era mai rassegnata all'idea di avere fatto tre figlie
femmine e di averle poi sparpagliate per il mondo, mentre il figlio
maschio, il maggiore, le era rimasto accanto. Proprio
lui, mio zio Nicola, era quello che non piangeva quel giorno, preso com'era
dalla soddisfazione delle sue piccole esigenze quotidiane: lo spuntino, il
riposo pomeridiano, tutto come se nulla fosse.
Quel
giorno, durante il corteo funebre, pensai che mio zio Nicola era una persona
molto superficiale. Solo sedici anni dopo, al suo funerale, avrei capito che il
suo comportamento di quel giorno era solo un modo per non pensare troppo alla
tragedia che gli stava capitando. Perdere la madre, per lui che forse non era
mai cresciuto del tutto, per lui che dietro l'apparente forza e giovialità
nascondeva un carattere molto fragile, era davvero una catastrofe. In
fondo era lui tra i figli quello che ci perdeva di più, lui che era l'ultimo a
portare il nome della famiglia e a cui il destino aveva negato la gioia e
la responsabilità di essere padre. Lui, che non si era mai rassegnato a dovere
invecchiare, senza vedere il proprio riflesso nel volto di un figlio
e che, per questa e per altre ragioni, scelse di non invecchiare e si sparò un
colpo di pistola alla tempia, in un caldo meriggio di agosto dell'anno 2000.
Militello
in Val di Catania, da non confondere con l'altra Militello, quella in provincia
di Messina e tanto cara a Vincenzo Consolo, sorge sul declivio settentrionale
dei monti Iblei. Nel V secolo a.C. quella zona fu teatro dell'eroica resistenza
delle popolazioni sicule, confederatesi sotto la guida del re Ducezio, per
contrastare l'espansionismo greco. Più tardi, nel 214 a.C., le truppe romane
guidate dal console M. Claudio Marcello, sfinite per il lungo assedio di
Siracusa e decimate dalla malaria, si accamparono in quelle colline dall'aria
salubre e dalle acque fresche e gorgoglianti, che furono chiamate da allora
"Militum Tellus", la terra dei soldati. Dopo la guerra, furono
parecchi i soldati romani che rimasero in quei luoghi e sposarono le donne indigene.
Da bambina vi soggiornavo per periodi molto lunghi, perché, qualsiasi fosse la
stagione, quando a mia madre veniva la nostalgia del suo paese, mio padre ci
caricava tutti a bordo della sua FIAT 500 beige e si partiva per un viaggio
estenuante, che poteva durare anche sei o sette ore. Più di trent'anni fa non
c'era ancora l'autostrada Palermo-Catania e si dovevano attraversare un numero
infinito di paesi e di frazioni dell'entroterra, che oggi apprezzerei senz'altro
di più, Ma a quell'età, il solo nominarli mi suggeriva una serie di
sensazioni molto vicine alla nausea, dovuta per lo più al mal d'auto.
Giunti
all'ultimo tratto di strada, benché fosse il peggiore, a mia madre passava la
voglia di vomitare, e allora cominciava a cantare i motivetti che più le
ricordavano la sua infanzia: "avvinti come l'edera", ma anche il
"Salve, o regina" o, se si era prossimi a Pasqua, anche il "Popule
meus", quel canto mesto che Gesù rivolge al suo popolo che lo ha
abbandonato e che la sera del Venerdì Santo viene intonato più volte, durante
la processione del Cristo morto per le vie del paese.
Qualsiasi
canzone andava bene, purché potesse distrarci dagli ultimi efferati tornanti di
una strada stretta e tortuosa, delimitata dai muretti a secco in pietra lavica,
che correvano paralleli intorno ai pendii scoscesi, coltivati a ulivi e
fichidindia.
Finalmente,
si arrivava all'ingresso del paese e, dopo aver attraversato la zona
nuova, ci si immetteva nel corso principale, che era tutto in leggera discesa e
conduceva verso il centro, passando in mezzo a due file di palazzi barocchi, con
i balconi in ferro battuto a ghirigori e le mensole ornate di teste
antropomorfe. Era un percorso abbastanza breve, ma lo si effettuava molto
lentamente, fermandosi a ogni metro, per non investire gli abitanti che, a una
certa ora del pomeriggio, e specialmente nei periodi di festa, erano tutti lì a
crocchi, in mezzo alla strada. "Come le pecore!", diceva mia madre,
con quel pizzico di distacco che le veniva dal fatto che, da quando aveva
sposato mio padre, era andata a vivere nella grande città.
Si
procedeva a fatica con l'auto, facendosi strada in mezzo a mille occhi curiosi
che scrutavano dentro l'automobile, finché, avendone riconosciuto il
contenuto, accennavano un saluto o un sorriso. Superata la piazza principale, si
scorgeva, giù in fondo alla strada, il campanile di Santa Maria e, subito dopo,
anche la chiesa adagiata al suo fianco, ma un po' arretrata e quasi a sé
stante, come se non facessero parte entrambi di un solo corpo architettonico.
La
casa dove era nata mia madre si trovava alle spalle del campanile, ma più in
basso, al di là di un piazzale, al cui posto sorgeva un tempo la chiesetta di Santa Margherita, che era andata distrutta, come la maggior parte
dell'abitato, nel terremoto del 1693. Quando nacque mia madre, ce n'era
ancora qualche rudere. Ma, dopo l'ultima guerra, fu raso tutto al suolo e, nella
piazzetta che si ricavò, ci piantarono tre alberi.
I
ricordi che ho della mia primissima infanzia, i miei ricordi più remoti, hanno
come sfondo la casa dei nonni. Sono immagini che ricorrono spesso anche nei miei
sogni notturni, a tal punto che, relativamente a quell'età, a volte mi riesce
difficile distinguere fra un fatto realmente accaduto e una situazione
vissuta in sogno. E' per questo che ricordo con molta precisione di avere
attraversato in volo più di una volta, non di corsa, ma proprio in volo,
le scale che univano il primo e il secondo piano della casa. Ricordo
anche, ma è solo un flash, il mio primo costume di carnevale. Era rosso e nero,
forse da folletto. Stavo in braccio a mio nonno, che mi aveva portata in piazza,
fiero e orgoglioso di quel fagottino biondo e paffuto che ero. E poi, rivedo
tante processioni che si snodano per le vie del paese; stradine strette e
tortuose, ma illuminate dalle lampade colorate appese alle inferriate dei balconi,
che erano stati vestiti a festa con drappi di damascato rosso o cremisi.
Quand'ero
bambina e passavo le ore seduta a leggere sul balcone della casa dei miei nonni,
all'ombra del campanile, non sapevo nulla del terremoto del 1693, e non mi
faceva nessuna impressione sentire raccontare che nella stanza da letto degli
zii di mia madre c'era una botola che dava accesso a dei locali
sotterranei, in cui c'erano ossa umane e arredi sacri. E non disdegnavo di
giocare con una statua decapitata di Santa Margherita, che stava nel giardino
della mia amica Teresa e che oggi, a quanto ne so, fa bella
mostra di sé al Tesoro di Santa Maria, nel settore dedicato al Medioevo.
Solo
molti anni dopo scoprii che a quella data fatidica del 1693 bisogna far
riferimento, per capire, non soltanto la storia, ma soprattutto l'assetto
urbanistico e l'architettura di Militello e di tutto il Val di Noto. Perché
essa fa da spartiacque fra il prima e il dopo, fra ciò che c'era e ciò
che rinacque dalle ceneri della distruzione. Leonardo Sciascia definì Militello
un paese "bello, poiché è tra quelli della mirabile ricostruzione
successiva al terremoto del 1693. Non integralmente ricostruito e non
integralmente conservato; ma bello e pieno di cose interessanti da
scoprire"[1].
La Chiesa di Santa Maria della Stella fa parte della ricostruzione.
Semidistrutta dal terremoto l'antica chiesa quattrocentesca, detta oggi la
Vetere, si decise di abbandonarla giù a valle, mentre la nuova chiesa
fu ricostruita in pochi decenni, ma più a monte, sul sito di quella di Sant'Antonio Abate, che era andata totalmente distrutta.
Fu
a Santa Maria che si sposarono i miei genitori e fu sempre lì che si erano
conosciuti un paio d'anni prima, in un incontro che a me piace immaginare
soffuso da un alone di vaga e gentile spiritualità stilnovistica. Dentro la
chiesa, fra tante cose pregevoli, c'è una Natività in ceramica di Andrea della
Robbia e un bassorilievo in pietra, il ritratto del viceré Pietro Speciale, di
Francesco Laurana, che da soli valgono un viaggio a Militello.
Il
campanile è una torre dalla base quadrata, in pietra calcarea dalle sfumature
molto calde e dorate, proveniente dalla vicina cava di Santa Barbara. Esso domina
su tutta quella parte del paese ed è visibile da tutti i punti di vista.
Segna le ore e i quarti e non c'è un momento della giornata che non sia
celebrato dal suono argentino delle sue campane. Esso scandisce tutti i momenti
gioiosi e infausti della vita di coloro che ci vivono intorno e che, sin dai
primi rintocchi, sanno subito se qualcuno si sposa o se qualcun altro è morto.
Ma la cosa più affascinante e che esso dà corpo e colore a tutte le feste del
calendario liturgico, accompagnandole con scampanate fragorose e incessanti.
Quanti
pomeriggi di agosto ho trascorso, seduta sul balcone della casa dei miei
nonni, con un libro in mano e il campanile che incombeva sopra la mia testa! Per
vederlo, non avevo bisogno di guardarlo. Era lì e ci sarebbe rimasto per
l'eternità, facendosi vivo ogni benedetto quarto d'ora e spezzettando le mie
giornate di bambina troppo taciturna e pensierosa in frammenti brevissimi, ma
tutti vissuti intensamente.
A
quarant'anni è impossibile vivere cosi intensamente il tempo. Più vorresti
fermarlo e più ti scivola addosso. Sai bene che non puoi più permetterti il
lusso di sprecare un minuto, ma poi perdi i giorni e i mesi e gli anni a cercare
l'assoluto.
Da
bambina, vivere era facile e tutto andava per il meglio, nel migliore dei mondi
possibili. Tutto era al suo posto e la vita scorreva serena. E' da adulti che le
certezze scompaiono una alla volta e ci si ritrova a vivere una vita che non è
la propria.
Da
bambina "sentivo" il tempo e persino ogni quarto d'ora aveva una forma
e un sapore.
Quando
avevo voglia di far colazione con pane e ricotta, mi alzavo presto, perché
bisognava che il campanile non avesse ancora suonato le otto, se volevo trovarmi
al casolare, appena in tempo per vedere la moglie del pecoraio che finiva di
rimestare con un bastone di legno il latte di pecora cagliato che
ribolliva nel grande calderone nero. Appena tutta la ricotta era venuta a galla,
la donna abilissima la raccoglieva in superficie con un attrezzo simile alla
cazzuola e la lasciava scivolare delicatamente nelle "cavagne", dei
canestrini cilindrici in legno che si potevano anche legare insieme a grappoli.
Tornavo
a casa di corsa col prezioso bottino della mia spedizione mattutina, e aspettavo
con pazienza che la nonna vuotasse delicatamente le "cavagne" su un
piatto, allineandole l'una accanto all'altra. La ricotta aveva preso la forma
sfaccettata e allungata dei recipienti e la nonna cominciava a spalmarla ancora
tiepida sulle fette di pane. Era un godimento per gli occhi e un tripudio per il
palato. Era il sapore della mia infanzia, tiepido, soffice e lattiginoso. Un
sapore che, nella sua rude semplicità, aveva poco da invidiare a
qualsiasi pasticcino di proustiana memoria.
Lo
scampanìo di mezzogiorno in genere coincideva con l'arrivo di Peppino Mantella.
Veniva di corsa giù dalla strada, con i calzoni corti da eterno bambino,
seguito come sempre da un nugolo di ragazzi schiamazzanti, e imitava il treno.
Lo imitava così bene, che un giorno aveva travolto una compaesana e si era
giustificato, dicendo che il treno ha i suoi orari da rispettare e che nulla può
fermare la sua corsa.
Era
fin troppo facile relegare un tipo come Peppino Mantella nella categoria dei
matti. Invece, lui era molto di più. Era l'anima del paese, il personaggio più
genuino che vi si potesse incontrare. Un vero campione di libertà. Quand'era
bambino sognava di diventare prete, ma la sua vita aveva preso un altro corso. E
allora Peppino aveva deciso che sarebbe stato sacerdote comunque, ma a modo suo.
In occasione delle ricorrenze del normale calendario liturgico, egli portava in
spalla una piccola bara con sopra la statua in miniatura del Santo di cui
ricorreva la festività. E imitava con la bocca la musica della banda e,
persino, il suono della "mascattarìa" e della cassa infernale.
Tollerato
benevolmente dal clero ufficiale, lui ignorava del tutto gli schiamazzi e gli
sberleffi dei ragazzi che lo inseguivano per le vie del paese. Ed era
visibilmente un uomo felice, perché era uno di quelli che hanno il coraggio di
realizzare da adulti, i sogni che hanno fatto da bambini. E se questa è follia,
onore alla follia!
Prima
di pranzo passava a salutarci lo zio Nicola, che aveva appena finito il suo
servizio. Era così bello con la sua divisa da vigile urbano, bianca in estate e
nera in inverno, ma sempre impeccabile, con i bottoni e le fibbie dorate e,
attaccata al cinturone, la pistola d'ordinanza che noi bambini non dovevamo
toccare, per nessuna ragione.
Conservo
di lui una foto in bianco e nero, in cui compare in divisa, sorridente e in
allegra conversazione con altre due persone: un collega, anche lui in divisa, e
uno spilungone, al centro fra i due, un certo Pippo Baudo, suo caro compagno
d'infanzia.
Lo
zio Nicola aveva un ruolo importante nella funzione del Venerdì Santo; un
ruolo che da tempo immemorabile spettava al primogenito della famiglia Vasta.
Era lui che saliva su una scala a pioli, col volto coperto dal cappuccio bianco
della Confraternita, e inchiodava il Cristo sulla croce, mentre la
banda taceva e, ad ogni chiodo conficcato, esplodeva un colpo di "miana".
Il cielo sembrava volesse oscurarsi come allora, mentre il piazzale antistante
alla chiesa del Calvario era gremito di gente, che assisteva alla funzione in un
silenzio soprannaturale, sotto la sferza di un vento gelido che entrava nelle
ossa e faceva stringere gli uni agli altri, per scaldarsi a vicenda.
La Chiesa del Calvario era dell'Ottocento e mi piaceva molto, perché era piccola.
La sua pianta aveva la forma bizzarra di una croce con le estremità arrotondate
e, sul davanti, c'era un portico a baldacchino che sovrastava la croce di legno,
presso cui si svolgeva la funzione. La porta laterale della chiesetta l'aveva
rifatta mio nonno ed era in legno pregiato, composta da tanti riquadri, in cui
erano scolpite scene e simboli della Settimana Santa. Quello che ricordo in
maniera più nitida è il gallo che cantò tre volte.
Quando
avevo otto o nove anni, anch'io partecipai alla funzione del Venerdì Santo, per
un paio d'anni di seguito, finché il costume di Maria Maddalena, che era
appartenuto a mia madre e alle mie zie, non mi venne troppo corto. Era una
tunica bruna, stretta in vita da un cordoncino bianco. Sulla testa portavo un
velo di macramé nero, trattenuto da una corona di spine, e recavo in
processione un cuscino di seta damascata cremisi, su cui erano disposti i tre
chiodi d'oro che servivano a crocifiggere Gesù.
Quand'ero
bambina e soggiornavo a lungo a Militello, non sapevo che, dal Medioevo al
periodo barocco, essa aveva dominato incontrastata su tutto il territorio che va
dalla Piana di Catania, fino alle ultime propaggini dei monti Iblei. Non sapevo
nulla neppure del principe Francesco Branciforti che, avendo soggiornato a lungo
alla corte di Spagna, aveva sposato Donna Giovanna d'Austria, nipote
dell'imperatore Carlo V e figlia del vincitore di Lepanto. Tornato in patria
assieme a tale illustre consorte, il principe aveva fatto di Militello una
piccola corte rinascimentale, frequentata da artisti e letterati provenienti da
tutta Europa e dotata persino di una tipografia. Ma il sogno ambizioso di
Francesco durò solo un trentennio: alla sua morte prematura (1622), in assenza
di eredi maschi, seguì inevitabilmente la decadenza. Poeti e artisti
abbandonarono Militello e, alla fine di quel secolo nefasto, il terremoto
giunse a darle il colpo di grazia.
Il
campanile di Santa Maria aveva appena suonato le cinque del pomeriggio, quando in
cima alla strada si vedeva comparire il villano in groppa al suo mulo, con
le gambe che penzolavano entrambe da un lato e un covone di fieno dietro la
schiena. Gli zoccoli dell'animale scivolavano sulle lastre di basalto levigato
della strada in discesa, e il padrone, con la coppola nera calata sugli
occhi, lo incoraggiava, emettendo dei suoni gutturali, assolutamente
incomprensibili.
Oltrepassata
la casa di mia madre, e continuando ad andare giù per la stradella, ma ho dei
ricordi molto vaghi sul percorso da compiere, c'è la zona più vecchia del
paese, la parte da cui cominciò la ricostruzione, quando l'antico insediamento,
distrutto dalle forze cieche della natura, fu abbandonato ancora più a valle.
Ove rimase, unica superstite, soltanto la Chiesa di Santa Maria la Vetere, oggi
sola e sperduta in mezzo alla campagna, come a custodire la gloria di un passato
eroico e a sfidare il tempo. Nonostante il crollo della navata di tramontana e
di quella centrale, di cui rimane solo la facciata, con il caratteristico
portico sostenuto da due colonne poste sulla schiena di due leoni accovacciati,
è un'importante testimonianza dell'arte gotico-rinascimentale, così elegante e
dignitosa nella sua semplicità.
In
seguito a recenti scavi archeologici, si è scoperto che la chiesa è stata
costruita su un preesistente tempio pagano. Il silenzio che la circonda parla di
Dio e delle lontane genti che venivano a pregare. Qui soleva raccogliersi in
preghiera anche la dolce Aldonza Santapau, fino a poco prima di essere uccisa
dal marito (1473), il principe Antonio Piero Barresi che, folle di gelosia,
aveva già trucidato il suo presunto amante. Si dice che a notte
fonda i morti tornino in processione, a cantare con le candele accese. Sembra di
poter sentire ancora i loro canti nel vento che mormora nella valle, mentre la
figura vaga di Aldonza, avvolta in ricche vesti ornate di monili, rimane
china e intenta alla preghiera.
Prima
che il sole calasse dietro le tegole dei tetti, le rondini arrivavano
all'improvviso, non si sa da dove, e cominciavano a volteggiare in gran numero
sopra la piazzetta di Santa Margherita, proprio all'altezza del balcone dove stavo
seduta. A ogni giravolta effettuata, alcune si separavano dalle altre con strida
acute e andavano a infilarsi in certe feritoie del campanile, degli spazi vuoti
fra i mattoni di calcare, che sembravano essere stati lasciati apposta per loro.
Quando
tutte le rondini erano rincasate, era già l'imbrunire, e allora era il turno
delle "taddarite" (i pipistrelli), che volteggiavano silenziosi sulla
piazzetta, di cui a quell'ora erano i padroni assoluti, ma più in basso,
all'altezza dei lampioni.
Recentemente l'Unesco ha inserito Militello, e le altre città barocche del Val di Noto,
nella lista dei siti patrimonio dell'umanità. La notizia, ovviamente, mi ha
colmata di orgoglio; ma al tempo stesso mi ha ispirato una sorta di timore
reverenziale che non avevo mai provato da bambina, quando andavo a trovare mio
nonno in bottega e non sapevo che quel pavimento sommerso dalle dune di segatura
impalpabile e rosa come cipria, su cui amavo fare le capriole, era del
Cinquecento.
Per
vedere comparire il nonno in cima alla stradella, bisognava che il campanile
avesse suonato le nove di sera. A noi bambini piaceva tanto scendere
precipitosamente giù per le scale, per andarlo ad abbracciare sulla porta
d'ingresso. E allora si poteva cenare, tutti insieme in allegria, tanto nessuno
faceva caso ai rimbrotti della nonna, che non sapeva spiegarsi i ritardi e lo
scarso appetito del nonno. Sembrava che avesse già mangiato altrove, osservava
lei, scrutandolo con i grandi occhi neri, identici a quelli dei suoi quattro
figli.
Mia
nonna Franca era nata a Militello, ma aveva trascorso l'infanzia e l'adolescenza
in Argentina, con la sua famiglia. Non perdonò mai a suo padre la decisione di
rientrare in paese, dopo quindici anni trascorsi in una città grande e moderna
come Buenos Aires. Aveva diciannove anni, quando ritornò a Militello, parlava
spagnolo, si vestiva e si pettinava con uno stile e una raffinatezza
allora sconosciuti alle altre donne del paese, fra le quali rimase sempre una
straniera. Pochi mesi dopo il suo ritorno dall'America latina, mia nonna andò
sposa a un giovane coetaneo dai capelli chiari e gli occhi azzurri. Caratteri
talmente recessivi, che nessuno dei figli e dei nipoti ha ereditato.
Mio
nonno Salvatore faceva il falegname, anzi, l'ebanista, che è molto più del
semplice falegname, perché il suo lavoro ha una componente artistica che
non rientra nel lavoro meramente tecnico del falegname. Era un mestiere
che nella sua famiglia si era tramandato, di padre in figlio, da parecchie
generazioni. Anche mio zio Nicola aveva imparato l'arte da bambino. Ma poi
aveva vinto il concorso di vigile urbano e aveva lasciato la bottega.
Non
ho mai saputo con certezza se mio nonno covasse del disappunto per questa scelta
del suo unico figlio maschio; anche perché i rapporti fra padre e figlio erano
sempre stati piuttosto tesi, per varie altre ragioni. Per di più, mio nonno non
amava la nuora; non perché fosse sterile, ma perché sterile lo era soprattutto
di cuore.
Io,
ero la prima nipote in ordine di nascita e devo riconoscere che fui coccolata da
mio nonno molto più degli altri nipoti. Ricordo con un misto di dispetto e di
tenerezza quei pizzicotti sulle guance che mi facevano diventare tutta
rossa. Quand'ero molto piccola, che camminavo appena, mi portava in braccio fino
in piazza e mi mostrava come un piccolo trofeo agli amici e ai compagni di
partito.
Mio
nonno era uno dei più convinti iscritti alla sezione locale della Democrazia
Cristiana, sin dai tempi di Scelba, e aveva partecipato attivamente alla vita
politica del Comune. Fu proprio durante il mandato di assessore ai lavori
pubblici che rifece tutto l'arredo della Sala Consiliare. Naturalmente non prese
un soldo per quel lavoro, come era giusto, e ci rimise anche nell'acquisto del
materiale; ma non ne ebbe neanche il merito, perché nei documenti ufficiali
compariva soltanto il nome di quello che era in realtà un suo modesto
collaboratore. Ma mio nonno era così. Faceva politica per passione e, in questi
casi, ci si rimette sempre di tasca propria. E se magari si è circondati da
tanti amici occasionali, si è però assolutamente incompresi dalla famiglia.
Mio
nonno sopravvisse a mia nonna per quindici anni. Nell'ultimo anno di vita non si
muoveva più dal suo letto ed era accudito da un infermiere. Ma era ancora
perfettamente lucido e passava il suo tempo a scrivere lettere alle autorità
civili, in cui sfogava la sua amarezza e la sua delusione, le stesse che, a ben
guardare, sono impresse nel volto di tutti i vecchi del mondo. Andai a trovarlo
alcuni mesi prima che morisse, stavolta con l'intenzione inconfessata di
congedarmi da lui, finché era cosciente. Quando ci abbracciammo, sapevamo
entrambi che era l'ultima volta che lo vedevo da vivo.
Militello
non è soltanto il paese in cui è nata mia madre. Vi si collocano anche le
origini di mio padre. I suoi antenati, lasciata Parigi alla fine del
Settecento, vennero in Sicilia e si stabilirono in quella zona. Fu poi il mio
bisnonno paterno, maresciallo nella polizia a cavallo, che ai primi del
Novecento lasciò Militello e si trasferì a Palermo, per ragioni di
lavoro. Stava per passare nel corpo dei corazzieri a Roma, quando fu fulminato
dalla Spagnola e morì all'età di trentatré anni. Era zio, tra l'altro, di
quel ragazzo che fu tra i più assidui frequentatori della neonata biblioteca
comunale "A. Majorana" di Militello. Era il 1910 e il professore
Giuseppe Musumeci era orgoglioso di dirigere una biblioteca fra le più fornite
della Sicilia, ricca di opere rare e pregevolissime, quali incunaboli e
cinquecentine. Un giorno si presentò un ragazzo undicenne, per domandare un
libro. «Ma non sei uno scolaro?», chiese il direttore. «No»,
rispose il ragazzo, «fui alla terza. I miei nonni, che sono poverissimi,
non possono mantenermi e io sto a servire in casa del pastaio... Lavoro anche la
notte». Ma, evidentemente, la notte studiava, quando non lavorava; e
si racconta che studiasse alla luce del lampione più vicino al balcone di casa,
per non sciupare l'olio della lampada.
Quel
ragazzo, cugino di mio nonno paterno, era un poeta e, con lo pseudonimo di Giosué
Sparito, scrisse parecchi libri di poesia e di critica letteraria che gli
diedero una certa fama. Trasferitosi anche lui a Palermo, fu maestro elementare
ed ebbe mio padre fra i suoi allievi. Inseguì fino alla morte una gloria che si
rivelò effimera, fin troppo consapevole di esser capitato in un'epoca ostile a
una sensibilità esasperata come la sua: «Vivo nel tempo che la lira è
stanca»[2]. Ma, in compenso, diede origine a due generazioni consecutive di
scrittori, giornalisti, conferenzieri e illustri urbanisti, disseminati per
l'Italia e l'Europa. Con i quali ho in comune il trisnonno Rosario, che era sì
"poverissimo", ma mi piace credere che fosse dotato di una grande
sensibilità e che avesse un rapporto col mondo basato sull'onestà e
l'autenticità degli affetti, come la maggior parte dei suoi discendenti.
Militello
è l'unico Paese, per quel che ne so, che ha due santi protettori: il Santissimo
Salvatore e la Madonna della Stella. Le guerre di campanile affondano le radici
in epoche molto lontane. Ai tempi dei bizantini e delle lotte iconoclaste, gli
abitanti di origine romana e di culto latino erano devoti della Madonna, mentre
quelli di origine greca si dedicavano al culto greco di San Nicolò. La secolare
diatriba che ne derivò raggiunse una tale violenza in certi periodi
storici, soprattutto in epoca illuministica, da indurre nel 1787 il re
Ferdinando I di Borbone a proibire entrambi i culti, istituendo al loro
posto un unico culto per il SS. Salvatore, da celebrarsi però nella vecchia
chiesa di S.Nicolò. I "nicolesi" accettarono di buon grado di
cambiare patrono; ma i "mariani", che erano i più penalizzati,
non si rassegnarono alla chiusura della loro parrocchia e continuarono a
festeggiare ogni anno l'8 settembre, dando luogo a disordini e polemiche senza
fine. In odio ai borboni, si legarono ad ambienti carbonari e liberali, mentre i
"nicolesi" furono sempre filogovernativi. E cosi, in epoca
risorgimentale le lotte religiose e di campanile si confusero con la
politica, causando anche fatti di sangue di una certa gravità. Finché,
dopo l'unità d'Italia, la chiesa di Santa Maria fu riaperta ed entrambi i culti
accettati e autorizzati.
In
tempi moderni la guerra fra la Madre e il suo Divin Figlio si combatte più
che altro nel cielo di Militello, a suon di "mascattarìa" e cassa
infernale. I fuochi d'artificio sono veri ricami fra le stelle. Ci sono poi le
partite di calcio, le corse in bicicletta, la musica in piazza, la processione,
lo sfoggio dei vestiti nuovi; e poi i venditori di torrone e quelli di
noccioline americane e tante altre attrazioni che rendono molto gradevole e
interessante il periodo che va dalla metà di agosto alla metà di settembre, in
cui cadono le due festività. Un trionfo di luci e di colori, ma anche di suoni,
di profumi e di sapori, tale da soggiogare tutti i sensi.
Io,
venendo da una famiglia di "mariani", partecipavo più attivamente
alla festa della Madonna della Stella, pur non disdegnando di seguire da vicino
anche l'altra festa. Ma è inutile negare che il coinvolgimento emotivo era
diverso. Quando l'8 settembre la statua della Madonna veniva portata sulla
"vara" in giro per le strade del paese, io e Teresa, la mia amica
d'infanzia, seguivamo tutta la processione. L'ultima volta trovammo
persino il coraggio di introdurci nella cordata che trascinava il carro
con in cima il simulacro e che fino ad allora era stata esclusivamente
costituita da soli uomini. A ripensarci adesso, non so bene se essere orgogliosa
del mio gesto temerario; ma a sedici anni mi sembrò una cosa straordinaria,
anche perché seppi poi da Teresa, che sin dall'anno seguente il nostro gesto fu
imitato dalle ragazze del paese.
Fu
quella l'ultima volta che soggiornai a lungo a Militello. Fu anche l'ultima
volta che raccolsi i gelsomini nel giardino di Teresa. Ce n'era una pianta dalle
dimensioni eccezionali, che si arrampicava su per la ringhiera di una scalinata
e, slanciandosi al di sopra di questa, vi creava un arco per tutta la sua
lunghezza, fino a raggiungere i balconi del primo piano, che quasi scomparivano
in mezzo a quella nuvola verde, puntellata di minuscole stelline bianche dal
profumo intenso. La mattina dell'ottava della Madonna, cioè il giorno in cui si
concludeva la festa, otto giorni dopo il suo inizio, l'anziana signorina Dorotea
Tutino, che fu maestra di mia madre, veniva in giardino a raccogliere con noi
migliaia di quei fiorellini delicati, che con molta cura venivano riposti
nelle ceste di vimini. Nel pomeriggio, spargevamo quei fiori a piene
mani sulla statua d'oro zecchino della Madonna che, appena uscita dalla chiesa
sulla sua "vara", si soffermava apposta sotto i balconi di casa Tutino,
per ricevere l'omaggio floreale, mentre le campane suonavano a festa e la folla
in delirio gridava: «VIVA MARIA!».
Dopo
di che, fui presa improvvisamente da altri interessi, gli studi sempre più
impegnativi e le amicizie sempre più coinvolgenti, che mi portarono a seguire
sempre meno spesso i miei genitori nei loro viaggi in paese. A tal punto
che, quando mia nonna Franca morì, era passato già un anno e mezzo
dall'ultima volta che l'avevo vista. Mentre mi lasciavo trascinare dal corteo
funebre, in quell'atmosfera grigia che opprimeva il mio spirito, ci pensavo e mi
sembrava impossibile. Era come se me ne rendessi conto solo in quel momento, con
un misto di rimorso e di rimpianto che mi dava le vertigini. Sentivo il
bisogno di recuperare il tempo perduto, perché mi rendevo conto che con la
morte di mia nonna la famiglia si sarebbe dispersa, non solo in senso spaziale,
che già lo era da tempo, ma anche in senso affettivo. E, inoltre, sentivo in
maniera confusa, ma dolorosa, che assieme a quella povera spoglia, stavo per
seppellire per sempre una parte di me, la mia infanzia, che avevo creduto eterna
e che, invece, era finita senza preavviso in quel pomeriggio di novembre.
Non
so bene se tornerò mai più a Militello. Ne ho una grande nostalgia che aumenta
col passare degli anni. Ma è un sentimento che probabilmente coincide col
rimpianto di un'età perduta per sempre. Se un giorno dovessi tornarci in veste
di turista, sarebbe tutta un'altra cosa e, probabilmente, resterei delusa di non
vederla più corrispondere al ricordo della mia infanzia.
La
cosa più sensata da fare sarebbe quella di rassegnarmi a pensare ormai a
Militello come a una dimensione della memoria, un luogo di sogno che può anche
essere fonte di ispirazione e motivo di riflessione. E se non sono nata a
Militello, è solo un puro caso. Oggi mi riconosco nello spirito che, un tempo
inconsapevolmente, sentivo aleggiare intorno a me e di cui certo mi sono
nutrita. La divisione, la diatriba, il mettere in discussione tutto e il
contrario di tutto, mi danno le coordinate del mio essere. E poi le grandi
velleità, il desiderare l'assoluto, pur restando inoperosi e in continua
attesa di qualcosa, come in preda alla crisi di volontà. Sono tutti aspetti che
tradiscono un più profondo rimpianto di quell'antica grandezza, perduta e mai
più ritrovata.
Stanco mio cuor che mi torturi invano,
Mio gran nemico che non so domare;
Se meco ti lamenti piano, piano
Credi che amore non ti può lasciare?[3]
[1] Articolo pubblicato su L'Espresso n. 42 del 25 ottobre 1981.
[2] Giosué Sparito, Su le rive del
silenzio, Ed. Siciliane, Palermo, 1936, pag. 15.
[3] Giosué Sparito, ibid., pag. 95.
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