IL PROFUMO DEL GELSOMINO
appunti di viaggio di Brigida Fagone
addì Sabato 18 Novembre, A.D.
2006
Faceva un caldo soffocante quella
notte in cui uccisi la mia piccola Aldonza.
Il profumo del gelsomino era denso
e dolciastro. Il silenzio della notte era squarciato dal latrato di un cane. Non
ricordo se ci fosse la luna nel cielo; ma se pure ci fosse stata, non avrebbe
potuto impedirsi di velare il suo volto, per la vergogna e il dolore, mentre la
vecchia pianta di gelsomino si contorceva, salendo su per gli spalti del
castello e riempiva l’aria con l’essenza inebriante dei suoi mille fiori
bianchi, così piccoli e così impertinenti.
Quella notte di agosto, io,
Antonio Piero Barresi, Principe di Militello e Signore della Terra, consumai il
delitto più odioso: mi vendicai dell’innocenza e della purezza. In preda all’ira
e alla gelosia, strangolai mia moglie, dopo averla tormentata per ore con
domande crudeli e meschine, mentre lei mi guardava sempre fisso negli occhi,
negando fieramente ogni colpa.
Spezzai il suo corpo, così fragile
e così pervicace come i fiorellini del gelsomino, finché esso non si afflosciò
fra le mie mani, senza opporre più resistenza. Ma non riuscìi a spegnere la
luce dei suoi occhi verdi, che mi fissavano ancora dal bel volto senza vita. E
che continuano a fissarmi tuttora, ovunque io vada.
E se sono sfuggito alla giustizia
umana, per via del mio rango, giacché nessuna Corte Criminale ha osato
condannarmi, non posso certo sfuggire alla mia coscienza, che è implacabile. Da
anni digiuno spesso e mi privo di tutte le comodità. Dormo sul pavimento, ai
piedi del letto che ci accolse entrambi, Aldonza e io, ai tempi felici della
nostra unione, a contatto con la pietra dura e fredda, come dura e fredda è la
pietra che pesa sul suo corpo.
Avevo incontrato Aldonza per la
prima volta nel castello di suo padre, Raimondo Santapau, marchese di Licodia.
Avevo desiderato possedere i suoi pensieri, prima ancora che il suo corpo. Esile
e slanciato, esso non aveva certo la forza di seduzione prepotente delle
contadine dalle forme morbide che avevano frequentato il mio letto. I suoi
capelli castani erano raccolti in una lunga treccia dai riflessi colore del
rame. I suoi occhi erano di un verde caldo e profondo come l'Oriente, con delle
pagliuzze dorate disseminate in mezzo all'iride e concentrate poi intorno alla
pupilla. Avevano una bellezza ammaliante, luciferina.
I primi mesi dopo il matrimonio
furono i più felici. Aldonza era innamorata e l'amore la rendeva bella e florida
come una rosa nel suo pieno splendore. Ma c'erano dei momenti in cui la
sorprendevo assente e distaccata, come se i suoi pensieri fossero volati via
chissà dove, inaccessibili al mio possesso. Alle mie domande non sapeva dare una
risposta e talvolta aveva una tale difficoltà a tornare in sé, che decisi di
non farci caso. Faceva parte del suo carattere e io l'amavo troppo, per farla
soffrire con la mia curiosità. Del resto, mi accorsi che la cosa succedeva
sempre più di rado, se io rinunciavo ad assillarla con le mie domande.
Ma venne un inverno molto freddo e
con esso una grave carestia colpì il territorio di Militello. La neve
imbiancava i tetti delle case giù a valle, ed esse si stringevano come un gregge
impaurito intorno alla chiesa di S. Maria. Le piante di gelsomino ai piedi del
castello dormivano sotto la coltre gelata, mentre i ramoscelli più sottili si
arrampicavano disperati verso l'alto, ma ormai ridotti a un ammasso di arbusti
secchi che scricchiolavano al solo sfiorarli. Aldonza mi aveva chiesto il
permesso di ospitare i poveri del paese nei locali adiacenti al cortile del
castello, per sfamarli e dar loro un riparo dal freddo. Il suo entusiasmo era
insolito e imprevisto, più forte della mia riluttanza. E così decisi di
dargliela vinta, come si fa a volte con i capricci delle donne, soprattutto
quando non costa quasi nulla accontarle.
Per settimane il cortile fu
occupato da una folla di presenze silenziose, che si animavano soltanto all’ora
della distribuzione del cibo, quando la stessa Aldonza compariva in cima allo
scalone, per sorvegliare che tutto procedesse con ordine. I miei fratelli mi
avevano raccontato che in mia assenza Aldonza scendeva in mezzo a quella
gentaglia e si soffermava ad accarezzare i bambini. Ma quando io ero presente,
lei non osava mai farlo, né io feci nulla per incoraggiarla, nonostante intuissi
che ne avesse la tentazione.
Prima che finisse l’inverno
dovetti lasciarla, per correre in Spagna al fianco di re Giovanni. Quando
giunse il momento di separarci, solo i suoi occhi pieni di lacrime tradivano la
sua angoscia. Il suo corpo rimaneva immobile, senza un gesto, nella penombra di
una fredda mattinata invernale. I suoi pensieri mi erano già preclusi.
Nell'istante in cui l'abbracciavo, sentivo che per lei era come se già io fossi
andato via.
Mi allontanavo da lei in groppa al
mio cavallo, seguito dai miei uomini più fidati, mentre un vento gelido ci
tagliava la faccia e ci entrava nelle ossa. E non potevo fare a meno di pensare
alla tristezza dei suoi occhi. Mi chiedevo come mai una donna intelligente e
colta come lei, che spesso mi aveva affrontato in certe discussioni, dandomi
prova della sua loquacità e delle sue conoscenze in vari campi dello scibile,
potesse invece, nei momenti in cui erano in gioco le sue emozioni più forti,
restare muta e impassibile, incapace di reagire a qualsiasi stimolo, e come
privata improvvisamente dello spirito. Forse era un suo modo speciale per
difendersi dalle aggressioni del mondo: opporre sempre una superficie dura e
impenetrabile, come la pietra che non conosce il dolore.
Prima di partire, avevo affidato
l'amministrazione dei miei beni al mio fedele segretario Pietro Caruso. Ci
tenevo che egli vegliasse sui miei fratelli Luigi e Cola, che più volte avevano
dimostrato di essere solo degli incoscienti e dei buoni a nulla. Per questa
ragione chiesi a Pietro di essere duro con loro e di non soddisfare sempre le
loro continue richieste di denaro. Se avessi potuto immaginare che tutto ciò
sarebbe stato causa di tanto odio mortale da parte loro!
Era già piena estate, quando
ritornai dalla Spagna. Ma, prima di tornare al castello, mi fermai per pochi
giorni a Palermo, per risolvere alcune questioni inerenti l’amministrazione
della mie terre. Fu lì che mi raggiunse un messo inviato dai miei fratelli, per
portarmi la notizia che Aldonza e Pietro erano divenuti amanti e che se la
spassavano in mia assenza fra feste e ricevimenti danzanti.
Non potrei dire con assoluta
certezza, se davvero credetti a quell'infamia. Ma essa, per il solo fatto di
essere stata pronunziata, mi fece perdere il lume della ragione, e da quel
momento diventò impossibile per me discernere la verità dall'inganno. Ecco il
motivo di tanti silenzi e di tante stranezze! Ecco spiegato tutto! Adesso era
tutto chiaro come la luce del sole.
Come una furia scatenata lasciai
la città e mi lanciai al galoppo per la strada che conduceva a Militello. Mille
pensieri assalivano la mia mente e il desiderio di vendetta opprimeva il mio
cuore.
E se davvero Aldonza mi avesse
tradito? Pietro Caruso era un uomo molto galante e di bell'aspetto, talmente
abile nella danza, che lo chiamavano "Bieddupedi". Mi sembrava di vederli,
mentre danzavano... e magari ridevano di me. E lei che si abbandonava a gesti e
parole che un tempo erano stati solo per me.
A dire il vero, non riuscivo a
credere che la mia piccola Aldonza avesse potuto farmi questo. Ma c'era un'idea
che mi torturava ed era che, seppure innocente, Aldonza era ugualmente
colpevole, per aver fatto sì che una tale infamia andasse per il mondo a
macchiare il mio nome.
Giunsi a Militello sul calar della
notte, in uno stato di sovreccitazione indicibile.
Mi precipitai da Pietro e lo
torturai, per farlo parlare; ma non riuscii ad ottenere da lui alcuna ammissione
di colpa. Allora lo trascinai sugli spalti del castello e tornai alla carica con
le mie domande, minacciando di buttarlo di sotto.
Non so, forse avrebbe ancora
potuto salvarsi, se avesse continuato a negare. Ma all'ultimo momento Pietro non
seppe rinunciare a prendersi una rivincita sulla mia caparbietà e insinuò:
"Signore, io non ho mai fatto simile peccato, nè mai mi è venuto in mente di
farlo, ma, ad ogni modo, se l'avessi fatto, tornerei a farlo".
Persi il controllo di me stesso.
Il profumo del gelsomino era troppo forte. L'afa era davvero insopportabile.
Ero come una furia scatenata, mentre spingevo giù quel disgraziato e in un
baleno lo raggiungevo sulla piazza sottostante.
Era ancora vivo. Ma io, non avevo
ancora saziato la mia sete di vendetta. Lo legai alla coda del mio cavallo e lo
trascinai per le strade del paese, fino alla casa di sua madre.
Alla vista di quello scempio, la
vecchia rimaneva muta e impietrita dal dolore. Non potevo tollerare un
atteggiamento così fiero. Visto che non voleva piangere, le imposi di cantare e
suonare con il tamburello davanti al corpo straziato di suo figlio.
Poi, fu la volta di Aldonza.
Ritornato al castello, ordinai che
me la conducessero davanti e cominciai a tormentarla con domande crudeli e
incalzanti che non sortivano altro effetto, se non quello di farla irrigidire in
quell'atteggiamento fiero e dignitoso che le conoscevo bene. Allora afferrai il
suo collo esile e strinsi con rabbia, fino a sentire il suo respiro smorzarsi in
un rantolo leggero…
Era così calda quella notte in cui
uccisi la mia Aldonza… Il profumo del gelsomino era denso e dolciastro… Si
sentiva solo il latrato di un cane.
Non so quanto tempo passò… e non
so neanche se ci fosse la luna, alta nel cielo. Quando tornai in me e mi resi
conto che era morta, chiamai le guardie e ordinai di appenderla con una corda
alla cisterna del baglio.
Fu l'ultima volta che la vidi.
Rimase appesa per tutta la notte, finché qualcuno la tirò giù e la depose in
una fossa accanto alla chiesa di Santa Maria.
Ma il suo spirito torna spesso a
trovarmi e rimane muto e silenzioso a guardarmi con quegli occhi verdi e fieri.
Allora il profumo del gelsomino invade l'aria con i suoi effluvi nauseanti, e da
lontano si ode un canto triste. Una voce sommessa, che ripete all'infinito le
parole con cui una vecchia madre, ballando sul cadavere del figlio, mi ha
maledetto per sempre:
Autu signuri ccu ssa biunna testa
mi fai cantari ccu la dogghia in
cori
a ogni santu veni la so festa
e a tia, signuri, viniri ti voli |