IL PROFUMO DEL GELSOMINO

appunti di viaggio di Brigida Fagone
addì Sabato 18 Novembre, A.D. 200
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Faceva un caldo soffocante quella notte  in cui uccisi la mia piccola Aldonza.

Il profumo del gelsomino era denso e dolciastro. Il silenzio della notte era squarciato dal latrato di un cane. Non ricordo se ci fosse la  luna nel cielo; ma se pure ci fosse stata, non avrebbe potuto impedirsi di velare il suo volto, per la vergogna e il dolore, mentre la vecchia pianta di gelsomino si contorceva, salendo su per gli spalti del castello e riempiva l’aria con l’essenza inebriante dei suoi mille  fiori bianchi, così piccoli e così impertinenti.

Quella notte di agosto, io, Antonio Piero Barresi, Principe di Militello e Signore della Terra, consumai il delitto più odioso: mi vendicai dell’innocenza e della purezza. In preda all’ira e alla gelosia, strangolai mia moglie, dopo averla tormentata per ore con domande crudeli e meschine, mentre lei mi guardava sempre fisso negli occhi, negando fieramente ogni colpa.

Spezzai il suo corpo, così fragile e così pervicace come i fiorellini del gelsomino, finché esso non si afflosciò fra le mie mani, senza opporre più resistenza. Ma non riuscìi  a spegnere la luce dei suoi occhi verdi, che mi fissavano ancora dal bel volto senza vita. E che continuano a fissarmi tuttora, ovunque io vada.

E se sono sfuggito alla giustizia umana, per via del mio rango, giacché nessuna Corte Criminale ha osato condannarmi, non posso certo sfuggire alla mia coscienza, che è implacabile. Da anni digiuno spesso e mi privo di tutte le comodità. Dormo sul pavimento, ai piedi del letto che ci accolse entrambi, Aldonza e io, ai tempi felici della nostra unione, a contatto con la pietra dura e fredda, come dura e fredda è la pietra che pesa sul suo corpo.

Avevo incontrato Aldonza per la prima volta nel castello di suo padre, Raimondo Santapau,  marchese di Licodia. Avevo desiderato possedere i suoi pensieri, prima ancora che il suo corpo. Esile e slanciato, esso non aveva certo la forza di seduzione prepotente delle contadine dalle forme morbide che avevano frequentato il mio letto. I suoi capelli castani erano raccolti in una lunga treccia  dai riflessi colore del rame. I suoi occhi erano di un  verde caldo e profondo come l'Oriente, con delle pagliuzze dorate disseminate in mezzo all'iride e concentrate poi intorno alla pupilla. Avevano una bellezza ammaliante, luciferina.

I primi mesi dopo il matrimonio furono i più felici. Aldonza era innamorata e l'amore la rendeva bella e florida come una rosa nel suo pieno splendore. Ma c'erano dei momenti in cui la sorprendevo assente e distaccata, come se i suoi pensieri fossero volati via chissà dove, inaccessibili al mio possesso. Alle mie domande non sapeva dare una risposta  e  talvolta aveva una tale difficoltà a tornare in sé, che decisi di non farci caso. Faceva parte del suo carattere e io l'amavo troppo, per farla soffrire con la mia  curiosità. Del resto, mi accorsi che la cosa succedeva sempre più di rado, se io rinunciavo ad assillarla con  le mie domande.

Ma venne un inverno molto freddo e con esso una grave  carestia colpì il territorio di Militello. La neve imbiancava i tetti delle case giù a valle, ed esse si stringevano come un gregge impaurito intorno alla chiesa di S. Maria. Le piante di gelsomino ai piedi del castello dormivano sotto la coltre gelata, mentre i ramoscelli più sottili si arrampicavano disperati verso l'alto, ma ormai ridotti a un ammasso di arbusti secchi che scricchiolavano al solo  sfiorarli. Aldonza mi  aveva chiesto il permesso di ospitare  i poveri del paese nei locali adiacenti al cortile del castello, per sfamarli e dar loro  un riparo dal freddo. Il suo entusiasmo era insolito e imprevisto, più forte della  mia riluttanza. E così decisi di dargliela vinta, come si fa a volte con i capricci delle donne, soprattutto quando non costa quasi nulla accontarle.

Per settimane il cortile fu occupato da una folla di presenze silenziose, che si animavano soltanto all’ora della distribuzione del cibo, quando la stessa Aldonza compariva in cima allo scalone, per sorvegliare che tutto procedesse con ordine. I miei fratelli mi avevano raccontato che in mia assenza Aldonza scendeva in mezzo a quella gentaglia e si soffermava ad accarezzare i bambini. Ma quando io ero presente, lei non osava mai farlo, né io feci nulla per incoraggiarla, nonostante intuissi che ne avesse la tentazione.

Prima che finisse l’inverno dovetti lasciarla, per correre in Spagna  al fianco di re Giovanni. Quando giunse il momento di separarci, solo i suoi occhi pieni di lacrime tradivano la sua angoscia.  Il suo corpo rimaneva immobile, senza un gesto, nella penombra di una fredda mattinata invernale. I suoi pensieri mi erano già preclusi. Nell'istante in cui l'abbracciavo, sentivo che per lei era come se  già io fossi andato via.

Mi allontanavo da lei in groppa al mio cavallo, seguito dai miei uomini più fidati, mentre un vento gelido ci tagliava la faccia e ci entrava nelle ossa. E non potevo fare a meno di pensare alla tristezza dei suoi occhi. Mi chiedevo come mai una donna intelligente e colta come lei, che spesso mi aveva affrontato in certe discussioni, dandomi prova della sua loquacità e delle sue conoscenze in vari campi dello scibile, potesse invece, nei momenti in cui erano in gioco le sue emozioni più forti, restare muta e impassibile, incapace di reagire a qualsiasi stimolo, e come privata improvvisamente dello spirito. Forse era un suo modo speciale per difendersi dalle aggressioni del mondo: opporre sempre una superficie dura e impenetrabile, come la pietra che non conosce il dolore.

Prima di partire, avevo affidato l'amministrazione dei miei beni al mio fedele segretario Pietro Caruso. Ci tenevo che egli vegliasse sui miei fratelli Luigi e Cola, che più volte avevano dimostrato di essere solo degli incoscienti e dei buoni a nulla. Per questa ragione chiesi a Pietro di essere duro con loro e di non soddisfare sempre le loro continue richieste di denaro. Se avessi potuto immaginare che tutto ciò sarebbe stato causa di tanto odio mortale da parte loro!

Era già piena estate, quando ritornai dalla Spagna. Ma, prima di tornare al castello, mi fermai per pochi giorni a Palermo, per risolvere alcune questioni inerenti l’amministrazione della mie terre. Fu lì che mi raggiunse  un messo inviato dai miei fratelli, per portarmi  la notizia che Aldonza e Pietro erano divenuti amanti e che se la spassavano in mia assenza fra feste e ricevimenti danzanti.

Non potrei dire con assoluta certezza, se davvero credetti a quell'infamia. Ma essa, per il solo fatto di essere stata pronunziata, mi fece perdere il lume della ragione, e da quel momento diventò impossibile per me discernere la verità dall'inganno. Ecco il motivo di tanti silenzi e di tante stranezze! Ecco spiegato tutto! Adesso era tutto chiaro come la luce del sole.

Come una furia scatenata lasciai la città e mi lanciai al galoppo per la strada che  conduceva a Militello. Mille pensieri assalivano la mia mente e il desiderio di vendetta opprimeva il mio cuore.

E se davvero Aldonza mi avesse tradito? Pietro Caruso era un uomo molto galante e di bell'aspetto, talmente abile nella danza, che lo chiamavano "Bieddupedi". Mi sembrava di vederli, mentre danzavano... e magari ridevano di me. E lei che si abbandonava a gesti e parole che un tempo erano stati solo per me.

A dire il vero, non riuscivo a credere che la mia piccola Aldonza avesse potuto farmi questo. Ma c'era un'idea che mi torturava ed era che, seppure innocente, Aldonza era ugualmente colpevole, per aver  fatto sì che una tale infamia andasse per il mondo a macchiare il mio nome.

Giunsi a Militello sul calar della notte, in uno stato di sovreccitazione indicibile.

Mi precipitai da Pietro e lo torturai, per farlo parlare; ma non riuscii ad ottenere da lui alcuna ammissione di colpa. Allora lo trascinai sugli spalti del castello e tornai alla carica con le mie domande, minacciando di buttarlo di sotto.

Non so, forse avrebbe ancora potuto salvarsi, se avesse continuato a negare. Ma all'ultimo momento Pietro non seppe rinunciare  a prendersi una rivincita sulla mia caparbietà e insinuò: "Signore, io non ho mai fatto simile peccato, nè mai mi è venuto in mente di farlo,  ma, ad ogni modo, se l'avessi fatto, tornerei a farlo".

Persi il controllo di me stesso. Il profumo del gelsomino era troppo forte. L'afa era davvero insopportabile.  Ero come una furia scatenata, mentre spingevo giù quel disgraziato e in un baleno lo raggiungevo sulla piazza sottostante.

Era ancora vivo. Ma io, non avevo ancora saziato la mia sete di vendetta. Lo legai alla coda del mio cavallo e lo trascinai per le strade del paese, fino alla casa di sua madre.

Alla vista di quello scempio, la vecchia rimaneva muta e impietrita dal dolore. Non potevo tollerare un atteggiamento così fiero. Visto che non voleva piangere, le imposi di cantare e suonare con il tamburello davanti al corpo straziato di suo figlio.

Poi, fu la volta di Aldonza.

Ritornato al castello, ordinai che me la conducessero davanti e cominciai a tormentarla con domande crudeli e incalzanti che non sortivano altro effetto, se non quello di farla irrigidire in quell'atteggiamento fiero e dignitoso che le conoscevo bene. Allora afferrai il suo collo esile e strinsi con rabbia, fino a sentire il suo respiro smorzarsi in un rantolo leggero…

Era così calda quella notte in cui uccisi la mia Aldonza… Il profumo del gelsomino era denso e dolciastro… Si sentiva solo il latrato di un cane.

Non so quanto tempo passò… e non so neanche se ci fosse la luna, alta nel cielo. Quando tornai in me e mi resi conto che era morta, chiamai le guardie e ordinai  di appenderla con una corda alla cisterna del baglio.

Fu l'ultima volta che la vidi. Rimase appesa per tutta la notte, finché qualcuno  la tirò giù e la depose in una fossa accanto alla chiesa di Santa Maria.

Ma il suo spirito torna spesso a trovarmi e rimane muto e silenzioso a guardarmi con quegli occhi verdi e fieri. Allora il profumo del gelsomino invade l'aria con i suoi effluvi nauseanti, e da lontano si ode un canto triste. Una voce sommessa, che ripete all'infinito le parole  con cui una  vecchia madre, ballando sul cadavere del figlio,  mi ha maledetto per sempre:

Autu signuri ccu ssa biunna testa

mi fai cantari ccu la dogghia in cori

a ogni santu veni la so festa

e a tia, signuri, viniri ti voli

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